Pane e pasta sono alimenti tipici della dieta mediterranea, il cui consumo e la cui considerazione sono però cambiati nel corso del tempo, anche a seguito delle accresciute conoscenze scientifiche. “Rispetto a qualche anno fa la classificazione chimica dei carboidrati è mutata” spiega Gianvincenzo Barba dell’Istituto di scienze dell’alimentazione (Isa) del Cnr di Avellino, “passando dalla mera suddivisione tra zuccheri semplici e zuccheri complessi alla valutazione del picco glicemico nel sangue in seguito alla loro assunzione. L’aumento della glicemia comporta – ricordiamo – una maggiore secrezione di insulina, ormone che favorisce l’utilizzo del glucosio come fonte energetica ma anche l’accumulo in forma di grasso in caso di apporto eccessivo”.
Informazioni che non vanno sottovalutate in un paese in cui il primo piatto continua a dominare a tavola: secondo dati forniti dalla Coldiretti, l’Italia mantiene il primo posto nel consumo di pasta, con 26 chili all’anno a persona, seguita dal Venezuela con 13 chili e dalla Tunisia con 12. “Queste cifre rendono indispensabile sapere, ad esempio, che pane, pizza e patate, alimenti ricchi in carboidrati, hanno un indice glicemico decisamente superiore rispetto alla pasta”, continua il ricercatore dell’Isa-Cnr, “riguardo alla quale bisogna sottolineare che la pasta di grano duro, tipicamente italiana, ha un indice glicemico minore rispetto a quella di grano tenero. Anche la modalità di cottura incide: la cottura al dente mantiene basso l’indice glicemico”.
Si deve poi tenere in considerazione il condimento. “La pasta al burro, per esempio, ha un indice glicemico leggermente più basso di quella al pomodoro”, precisa Barba, “ma il burro, come tutti i grassi, ha un apporto calorico molto elevato. Non bisogna fare confusione: basso indice glicemico non significa alimento ipocalorico”.
Anche nel consumo di carboidrati semplici si registrano cambiamenti nelle abitudini degli italiani: le linee guida per una corretta alimentazione consigliano di limitare l’uso di zuccheri semplici, quale quello usato per il caffè o altre bevande, per il loro alto indice glicemico e per gli effetti negativi sulla salute (sovrappeso, carie, diabete). Spesso si fa ricorso a prodotti artificiali molto dolcificanti.
“Recenti studi in animali da esperimento hanno documentato che il libero accesso ad alimenti dolcificati artificialmente è associato nel tempo a incremento del peso, aumento che non si verifica se si hanno a disposizione alimenti addolciti naturalmente”, avverte Barba. “A spiegare questo fenomeno è il ruolo fisiologico del dolce quale ‘segnalatore’ dell’assunzione di alimenti ricchi in calorie, la cui mancata percezione a livello inconscio spinge l’individuo a cercare in altri alimenti le calorie attese. In pratica, si mangia di più per coprire il gap energetico percepito. Qualora l’ipotesi venga dimostrata nell’uomo, i nostri comportamenti e le scelte in campo alimentare sono destinati a mutare sensibilmente”.